TAR PIEMONTE E “STANZA DELL’ASCOLTO”:
“ADELANTE, PEDRO”, CON GIUDIZIO E QUALCHE TIMORE
La sentenza TAR Piemonte del 2 luglio 2025 ha disposto l’annullamento della Convenzione con la quale era stata concessa al CAV-MPV di Rivoli la “Stanza dell’Ascolto” all’Ospedale sant’Anna.
Motivo dell’annullamento è, sostanzialmente, la mancata specificazione dei requisiti di idoneità e professionalità dei volontari, demandati alla scelta del Presidente del CAV-MPV.
Questo renderà necessario integrare in tal senso la convenzione, esplicitando l’adeguata formazione dei volontari.
Marco Schiavi, del Laboratorio Giuridico di Federvita Lombardia, propone una articolata riflessione sulle implicazioni di questa sentenza la quale preoccupa per l’analisi degli Statuti delle organizzazioni pro-life coinvolte, laddove pare richiedere una sorta di “adesione” all’intera procedura codificata dalla legge 194/1978 che rischia di configurarsi quale pre-requisito per la stipula delle convenzioni.
A questo si oppone la corretta lettura della legge 194/1978, ovvero l’impegno per “rimuovere le cause che potrebbero indurre all’aborto” di cui le convenzioni sono strumento utile e normativamente previsto, nel rispetto della natura e delle finalità delle organizzazioni pro-life.
LE REAZIONI ALLA SENTENZA
La recente sentenza del TAR Piemonte depositata il 2 luglio e relativa alla “Stanza dell’Ascolto” presso l’Ospedale Sant’Anna di Torino ha provocato reazioni contrastanti.
Da una parte, come enfaticamente proclamato dal variegato fronte abortista, la sentenza ha posto un freno all’ennesimo tentativo di annichilire i diritti delle donne, tra i quali viene annoverato quello all’aborto, continuamente esposto all’assalto dei nemici dell’autodeterminazione senza limiti. Pertanto, grande soddisfazione per la chiusura della “Stanza dell‘Ascolto” che, da quelle parti, si confida definitiva, assieme alla scomparsa di ogni presenza dei Centri Aiuto alla Vita (CAV) e associazioni simili nei consultori e negli ospedali.
Dall‘altra parte il fronte pro-life ha ritenuto la sentenza una battuta d’arresto e nulla di più sul percorso delle convenzioni con gli enti pubblici, la quale imporrà una maggiore attenzione nella stipula delle convenzioni. In questa prospettiva si valuta positivamente il riconoscimento della legittimità e del fondamento normativo di tali convenzioni e lo stesso assessore al Welfare della Regione Piemonte, Maurizio Marrone, ha affermato che “non stappo le bottiglie, perché è comunque una sentenza avversa, ma apre alla possibilità di un nuovo provvedimento per una convenzione nuova che rilanci nella sua continuità l’attività della Stanza”.
IL CASO CONCRETO
Il giudizio davanti al TAR Piemonte riguardava l’annullamento della Convenzione stipulata il 28 luglio 2023 con la quale l’Azienda ospedaliero-universitaria (AOU) Città della salute e della scienza di Torino aveva affidato al Centro di Aiuto alla Vita e Movimento per la vita di Rivoli, con la supervisione ed il coordinamento di FederviPA (la Federazione regionale dei CAV e dei MpV di Piemonte e Valle d’Aosta), il servizio, effettuato da volontari, di supporto ed ascolto per le donne gestanti in difficoltà e che potrebbero prendere in considerazione la scelta di interrompere la gravidanza.
Di fatto veniva concessa una “stanza”, la cosiddetta “Stanza dell’Ascolto”, all‘interno dell’Ospedale Sant’Anna di Torino.
La finalità del servizio si collegava immediatamente alla legge 194/1978, ovvero all’articolo 2 lettera d), che prevede l’assistenza alla donna in stato di gravidanza per contribuire “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all‘interruzione della gravidanza”.
IL RICORSO AL TAR: CGIL, CANTINI CORTELLEZZI E ASSOCIAZIONE “SE NON ORA QUANDO”
Il ricorso al TAR per l’annullamento della Convenzione è stato proposto dalla CGIL nazionale, unitamente ad articolazioni territoriali e di categoria, dalla signora Giulia Marialuisa Cantini Cortellezzi, avvocato in Torino e dall’Associazione “Se non ora quando”.
Il TAR ritiene che la CGIL non abbia legittimazione alcuna ad impugnare la Convenzione, stante la sua natura di organizzazione sindacale e la circostanza che la Convenzione non intacca in alcun modo i diritti delle donne lavoratrici.
Affermazione rilevante, se si considerano le iniziative, anche a livello europeo, patrocinate dalla CGIL, contro l’obiezione di coscienza e lamentando la carenza di servizi ospedalieri abortivi.
Seccamente il TAR nota che lo Statuto della CGIL non contempla alcuna finalità riferibile alla legge 194/1978.
Né la CGIL può lamentare un’incidenza della Convenzione sui dipendenti pubblici, in quanto costoro mantengono intatte le loro funzioni, anche in presenza della Convenzione.
Il TAR ritiene che anche la signora Cantini Cortellezzi sia priva di legittimazione ad impugnare la Convenzione, non essendo portatrice dell’interesse attuale e concreto richiesto per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi, avendo prospettato un interesse meramente futuro quale possibile donna interessata ad avvalersi dei servizi dell’AOU.
Peraltro, anche in tale ipotesi, sarebbe difficile individuare e comprendere il danno lamentato perché, mentre i servizi pubblici rimangono integri, la Convenzione offre un servizio aggiuntivo, ovvero la “Stanza dell’Ascolto”, per chi intende spontaneamente avvalersene.
Il TAR riconosce la legittimazione ad impugnare la Convenzione in capo all’Associazione “Se non ora quando”.
Si tratta di una scelta non solo discutibile sul piano giuridico, ma che denota un atteggiamento ideologico da parte del Collegio giudicante.
Invero, per quanto riguarda la CGIL, il TAR ha affermato che lo Statuto “non contempla finalità riferibili alla legge 194/1978 e alla sua applicazione”.
Orbene, lo Statuto dell’Associazione “Se non ora quando”, come pubblicato sul sito ufficiale, presenta una lunghezza di ben cinquanta (50) righe e non contiene alcun riferimento, sia normativo che letterale, all’aborto, all’interruzione volontaria di gravidanza o ai diritti riproduttivi, pur nel contesto di un’impostazione femminista.
Tra gli scopi associativi, come ricorda il TAR stesso, vi sono “promuovere la libertà femminile” e “vigilare attivamente perché le conquiste di libertà femminile finora ottenute non siano revocate né affievolite in alcun modo”.
Nel momento in cui il TAR afferma, apoditticamente, che “l’associazione reca tra i compiti statutari la protezione dell’interesse leso dall’atto impugnato”, pare ritenere che la “Stanza dell’Ascolto”, servizio facoltativo a disposizione delle donne, rappresenti una sorta di attentato alle libertà femminili.
Quest’affermazione, che conduce alla legittimazione ad agire in capo all’Associazione, rappresenta una considerazione ideologica e contrastante, peraltro, con l’impostazione della legge 194/1978.
Il TAR aggiunge che l’interesse collettivo, di cui l’Associazione è portatrice, si sostanzierebbe nella “corretta attuazione della legge n. 194/1978 quanto meno sotto il profilo dell’adeguata e obiettiva informazione a salvaguardia dell’autodeterminazione della donna”, non sottraendosi in tal modo ad una plurima critica:
- nello Statuto associativo non vi è menzione alcuna dell’aborto;
- la pretesa alla “corretta attuazione della legge 194/1978” non assurge ad interesse tale da legittimare l’impugnazione del provvedimento amministrativo, come pacifico nella giurisprudenza amministrativa;
- l’autodeterminazione della donna e del pari lo stesso aborto non sono qualificabili in termini di diritto azionabile giudizialmente, come lo stesso TAR afferma espressamente nel prosieguo della sentenza;
- “l’adeguata e obiettiva informazione” che deve essere data dalle organizzazioni pro-life è quella che attiene ai mezzi ed alle modalità per contrastare la scelta abortiva, trasformando, altrimenti, tali organizzazioni in “uffici informazioni”, “consulenti giuridici dell’interruzione di gravidanza” e, così, pervertendo il loro ruolo, la loro natura, le loro finalità statutarie.
Può quindi affermarsi che il riconoscimento della legittimazione in capo all’associazione “Se non ora quando” significa un’adesione del TAR all’ideologica prospettazione per la quale l’unica “libertà” da tutelare è quella di abortire, l’unica “autodeterminazione” riconosciuta dalla legge è quella che conduce alla scelta di abortire ed è “violenza” nei confronti delle donne l’offerta di aiuto per non abortire.
LA CONVENZIONE HA FONDAMENTO NORMATIVO
Il TAR respinge la prima censura secondo la quale nella procedura abortiva è centrale la figura del medico, il che, anche ammesso, non significa figura esclusiva.
Si conceda l’osservazione che tale “centralità”, affermata con riguardo ad un servizio facoltativo quale quello offerto dalla Convenzione, non viene evidenziata nella vicenda della pillola abortiva RU486 dove la donna, dopo la somministrazione della prima pillola è mandata a casa per l’autosomministrazione, in solitudine, della seconda pillola, quella che causa l’espulsione del feto… senza medico.
Una sorta di double standard: per essere aiutate ad abortire non occorre il medico… per essere aiutate a non abortire, anche risolvendo problemi che di medico-sanitario non hanno nulla, occorre, anzi, se ne afferma la centralità, il medico.
Il TAR richiama l’articolo 2 comma 2 della legge 194/1978 che contempla espressamente tali convenzioni ma, con un rilievo di pregnante significato, riconosce che tale disposizione “anche se riferita ai consultori, secondo l’opinione del collegio, consente anche alle strutture ospedaliere […] di avvalersi di siffatti enti”, optando per una decisa interpretazione estensiva della lettera della legge in linea con la ratio della stessa, volta a “rimuovere le cause che potrebbero indurre all’interruzione volontaria della gravidanza”.
“IDONEITÀ” DELL’ASSOCIAZIONE E REQUISITI DI PROFESSIONALITÀ DEI VOLONTARI”
Il motivo dell’annullamento della Convenzione disposto dal TAR risiede nella parola “idoneità”.
Il TAR rileva che l’articolo 2 della legge 194/1978 richiede che le associazione siano “idonee” ed anche nell’articolo 56 del Decreto legislativo 117/2017, il quale disciplina le convenzioni con gli enti del terzo settore, è richiesto che le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale siano “in possesso dei requisiti di moralità professionale e dimostrino adeguata attitudine”, valutazione che deve essere svolta dall’ente pubblico in concreto, facendo riferimento a tutta una serie di elementi dettagliatamente indicati, tra i quali, numero degli aderenti, risorse a disposizione, capacità tecnica e professionale e, per concludere, “formazione e aggiornamento dei volontari”.
Il TAR rileva che nella Convenzione in esame non vi è traccia di queste valutazioni e non è previsto alcun controllo da parte dell’amministrazione pubblica.
In particolare, il TAR si sofferma sulle “risorse umane”, ovvero i volontari e valuta sul punto negativamente la Convenzione, in quanto i volontari “non soddisferebbero i requisiti di idoneità previsti in termini di capacità tecnica e professionale, da intendere come concreta capacità di operare e realizzare l’attività oggetto di Convenzione”.
Pertanto, secondo il ragionamento del TAR:
- i volontari devono possedere requisiti di capacità e professionalità, in forza del requisito normativo dell’”idoneità” delle associazioni;
- la Convenzione deve prevedere in maniera specifica tali requisiti in capo ai volontari nominativamente indicati;
- l’ente pubblico deve verificare i requisiti, sia al momento della sottoscrizione della Convenzione che durante la vigenza della stessa.
Diversamente la Convenzione impugnata prevede che i volontari siano scelti discrezionalmente dal Presidente dell’Associazione.
E’ pur vero che la Convenzione prevede “volontari scelti tra quelli con maggiore esperienza nell’accompagnamento in gravidanze difficili e appositamente formati per tale ruolo” ma, rileva ancora il TAR, non è dato comprendere, perché non sono indicati, quali siano i criteri per addivenire a tale qualificazione, con la conseguenza che la pubblica amministrazione non è posta in grado di esercitare alcun controllo sulla “idoneità” dell’associazione a convenzionarsi, idoneità dell’associazione che si riflette sulla necessaria e documentata idoneità dei volontari.
In conclusione per il TAR la Convenzione deve prevedere:
- i requisiti di professionalità;
- la verifica iniziale e nel tempo di tali requisiti da parte dell’amministrazione pubblica;
- l’indicazione nominativa dei volontari che svolgeranno l’attività convenzionata.
Essendo mancato tutto questo, il TAR annulla la Convenzione stessa.
Per quanto riguarda le attività pro-life questa sentenza pone certamente il problema della formazione dei volontari, la necessità dell’organizzazione di percorsi di formazione continua, superando un certo spontaneismo che rischia di cadere sotto la scure dei giudici amministrativi.
Al tempo stesso è un requisito preciso e raggiungibile al quale sono già attente le convenzioni già stipulate le quali prevedono, ad esempio, che “le Associazioni CAV garantiscono che i propri operatori siano provvisti delle cognizioni teoriche e di base sufficienti per consentire una discreta ed efficace attività riferita al servizio”.
Si tratterà di strutturare tale formazione in modo tale da proporre all’ente pubblico adeguati soggetti di formazione dei volontari, creando una rete costante nel tempo ed in grado di offrire supporto ai CAV.
Come ha sottolineato l’assessore Marrone, la Regione Piemonte è dotata di un elenco dei Centri di aiuto alla vita accreditati che sono presenti ed attivi sul territorio regionale e per ottenerne l’iscrizione occorre dimostrare il possesso di determinati requisiti, tra i quali la professionalità degli associati.
Tale considerazione potrebbe comportare che la verifica di professionalità sui volontari sia già stata svolta dalla Regione stessa al momento dell’inserimento del citato elenco e non necessiterebbe un’ulteriore verifica.
La sentenza TAR sul punto ha richiesto una verifica “in concreto”, ovvero che i requisiti siano riportati all’interno della convenzione e che l’amministrazione pubblica sia in grado ed effettivamente svolga un’adeguata verifica circa la sussistenza dei requisiti.
L’annullamento da parte del TAR imporrà una “ripetizione” della Convenzione, peraltro in scadenza, ma lo stesso assessore Marrone ha evidenziato che il Centro di aiuto alla vita di Rivoli e la stessa Azienda sanitario-ospedaliera di Torino “nei mesi scorsi, prima dell’attivazione e subito dopo avevano concordato e svolto sedute di formazione portate aventi dal personale dell’ospedale”, concludendo che tale “professionalità” esiste nei fatti ma non è stata riportata in Convenzione.
La sentenza TAR non ha approfondito la questione circa la rilevanza della verifica svolta dalla Regione ai fini dell’inserimento del CAV di Rivoli nell’elenco degli enti accreditati e beneficiari di finanziamenti, ovvero se tale verifica reca una valutazione di idoneità che rende il CAV idoneo alla stipula di convenzioni che riguardano, ovviamente, l’attività propria e specifica del CAV stesso.
L’analisi di alcune Convenzioni stipulate nell’ambito della Regione Lombardia evidenzia che tale aspetto è tenuto presente, prevedendosi tra l’altro:
- la costituzione di “un gruppo di lavoro misto incaricato di valutare l’andamento della collaborazione”, ovvero la creazione di un tavolo permanente nell’ambito del quale si formi competenza e si alimenti in maniera costante il dialogo sui vari aspetti della Convenzione che possono dare adito a controversie;
- il coinvolgimento e la partecipazione dei volontari CAV sia nelle riunioni di reparto, “per ricevere segnalazioni, discutere i problemi inerenti le finalità dell’Associazione (ovvero il CAV stesso), concordare le modalità operative della propria attività in reparto”, che “a corsi o ad iniziative culturali e formative destinate al proprio personale su problematiche della maternità”.
Tali previsioni, unitamente ai percorsi formativi già in atto e che saranno strutturati con ancora maggiore consistenza, inducono a concludere che i CAV sono pienamente idonei ad essere soggetti di convenzioni con ospedali e consultori.
“IN CAUDA VENENUM”: GLI STATUTI DELLE ORGANIZZAZIONI PRO-LIFE OVVERO L’ABORTO NON È UN DIRITTO E CONTRASTARLO È LECITO E DOVEROSO
La sentenza, anche se trattasi di considerazioni che non sembrano avere diretta incidenza sul dispositivo di annullamento, analizza gli scopi statutari delle organizzazioni pro-life convenzionate in rapporto alle finalità della legge 194/1978, con una serie di affermazioni che destano perplessità e financo preoccupazione.
Il dato di partenza nell’inquadramento della questione è la decisa affermazione dell’autonomia delle singole organizzazioni pro-life, alle quali non può essere imposta attività alcuna in contrasto con le finalità ed i vincoli statutari.
La stipula della Convenzione determina l’attribuzione all’organizzazione pro-life di determinati diritti allo svolgimento di attività finalizzate alla tutela della maternità e, certamente, correlative limitazioni nel rispetto dell’organizzazione degli enti pubblici e della struttura gerarchica, ma non sono ipotizzabili obblighi di specifiche attività.
Le organizzazioni pro-life sono vincolate al rispetto dei loro statuti e garantite dalla libertà di perseguire gli obiettivi con le modalità ritenute più adeguate.
Anche la Convenzione in esame riconosce tale autonomia statutaria, affermando che l’attività “deve essere svolta compatibilmente con le proprie finalità statutarie…”.
L’attività delle organizzazioni pro-life è di prevenzione e contrasto all’aborto, in linea con le previsioni della legge 194/1978 che all’articolo 5 ribadisce che l’attività degli stessi enti pubblici è primariamente volta a “rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza”.
Gli statuti delle organizzazioni pro-life sono espliciti nella posizione di tutela della vita umana sin dal concepimento e nel contrasto all’aborto, attraverso aiuti di vario genere offerti a tutte le donne che ne fanno volontariamente richiesta.
Al riguardo il CAV di Rivoli ha come scopo “difendere la vita di ogni essere umano dal concepimento” e “rendere effettiva la libertà della donna di non abortire”.
Il Movimento per la vita italiano, similarmente, ha come scopo “difendere la vita di ogni essere umano senza eccezioni dal concepimento” e “si oppone anche alla legge 194/1978 così come ad ogni provvedimento che voglia introdurre o legittimare pratiche abortive”.
Le finalità statutarie delle organizzazioni pro-life sono da porre in relazione all’architettura della legge 194/1978 ed al riguardo occorre svolgere alcuni sintetici passaggi:
- le organizzazioni pro-life sono presenti “per aiutare la maternità difficile”, in considerazione della loro “qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”, come recitano l’articolo 2 comma 2 della legge 194/1978 ed il recente articolo 44-quinquies del decreto legge 19/2024, convertito con legge 56/2024 e relativo all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR);
- come riconosce anche lo stesso TAR, “la legge 194/1978 non afferma il diritto incondizionato all’interruzione della gravidanza e ne riconosce la liceità nei casi e alle condizioni”, ovvero ne ha operato una specifica depenalizzazione, operando un bilanciamento, discutibile nella sostanza e negli esiti, tra la vita del concepito e la vita e la salute della donna, in aderenza allo schema della sentenza della Corte costituzionale 27/1975;
- l’aborto non è, dunque, un diritto e la legge 194/1978 è, invece, esplicita nel tutelare la maternità, la vita umana sin dal suo inizio (articolo 1), attribuendo ai consultori una vasta gamma di compiti, sia di tipo informativo (articolo 2 lettere a e b), sia di tipo operativo, attivandosi direttamente o attraverso l’ente locale competente e le strutture sociali operanti nel territorio, “quando la gravidanza o la maternità creino problemi” (articolo 2 lettera c), ma, soprattutto, “contribuendo a rimuovere le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” (articolo 2 lettera d), rendendo palese l’intenzione del legislatore e la finalità della legge, perfettamente trasfusa nel significato testuale, che assegna ai consultori, come primo e principale compito, favorire la nascita e tutelare la vita umana fin dal suo inizio;
- l’aborto, anche nella logica di una legge abortista quale la 194/1978, non è un diritto che si fonda sull’autodeterminazione, senza alcun limite, ma un rimedio, extrema ratio, ad una situazione che non è stato possibile fare evolvere in senso favorevole alla maternità;
- la legge 194/1978 non pone assolutamente sullo stesso piano “abortire o partorire”, ma privilegia la nascita, prevede interventi a tal fine e la finalità che le strutture socio sanitarie ed i consultori devono primariamente perseguire è favorire la nascita, ovvero evitare l’aborto;
- gli aiuti ed i sostegni prospettati e concretamente messi a disposizione della donna che intende praticare l’aborto sono legittimi e doverosi, mai potendosi “colorare” di una sorta di illiceità in quanto volti a coartare, più o meno maliziosamente, la volontà della donna, rappresentando, al contrario, adempimento di specifiche previsioni legislative a tutela della maternità e della vita umana “sin dal suo inizio”, in conformità a specifiche previsioni costituzionali (articolo 2 e articolo 31).
Quindi, contrastare l’aborto è un’attività non solo lecita ma doverosa, da parte non solo delle organizzazioni pro-life ma anche di tutto l’apparato pubblico coinvolto.
Se l’aborto è extrema ratio, la legge 194/1978 di cui le convenzioni, tra le quali quella in esame, sono specifica attuazione, hanno il compito di contrastare l’aborto, offrendo alle donne un’alternativa praticabile e sostenendola con aiuti sia economici che materiali, sia morali che personali.
Le organizzazioni pro-life non sono presenti per agevolare l’aborto ma per contrastarlo ed in questo senso offrono e contribuiscono alla piena attuazione della legge 194/1978.
Ad altri spetta informare ed eseguire gli aborti.
In questa prospettiva alcune affermazioni della sentenza appaiono incomprensibili, altre inaccettabili.
Che la Convenzione stipulata abbia come proprio scopo “l’attuazione piena di quanto previsto dalla legge 194/1978” non pare significare nulla più che dare attuazione alla parte di prevenzione dell’aborto, essendo le interruzioni volontarie di gravidanze praticate all’Ospedale Sant’Anna in maniera efficiente e continua, come testimoniano i dati a disposizione.
L’”attuazione piena di quanto previsto dalla legge 194/1978” non passa attraverso una confusione di compiti e di funzioni, ma attraverso una pluralità di soggetti e le organizzazioni pro-life attuano la parte della legge 194/1978 volta a prevenire l’aborto, rispettando la volontà della donna ed in coordinamento e sintonia con le articolazioni dell’apparato pubblico, quali regioni, enti locali, consultori, strutture sanitarie, tutti nominati esplicitamente nella legge 194/1978.
L’opposizione all‘aborto, lecita e doverosa, viene svolta, nel caso in esame, attraverso uno strumento normativamente previsto, ovvero la Convenzione, in piena attuazione delle finalità e della ratio della legge 194/1978.
O forse il TAR vorrebbe che a “rimuovere le cause che porterebbero all’interruzione della gravidanza” fossero chiamate “esclusivamente” organizzazioni che hanno come scopo la promozione dell’aborto come diritto fondamentale e che vedono nell’istituzione di un servizio volontario e facoltativo un attentato “alle conquiste di libertà femminile” quale è l’aborto?
Da respingere è l’affermazione del TAR che le previsioni statutarie di contrarietà all’aborto e di tutela della vita fin dal concepimento siano in contrasto con la legge 194/1978.
L’articolo 1 della legge 194/1978 prevede “la tutela della vita umana sin dal suo inizio” e se la vita umana non iniziasse con il concepimento ma con un altro arbitrario punto di partenza la legge 194/1978 non avrebbe alcun senso (da quando partirebbero “i primi novanta giorni”?).
Ma è altrettanto vero, e lo si ribadisce, che la legge 194/1978 è contraria all’aborto, lo depenalizza in casi specifici e appare impegnata ad impedirlo ed a punirlo quando avviene al di fuori delle esenzioni di punibilità espressamente contemplate.
Quindi, conclusivamente, non si comprende a cosa alluda e quali conseguenze intenda trarre il TAR quando evidenzia il contenuto degli statuti delle organizzazioni pro-life nella parte relativa alla contrarietà all’aborto.
Non è ipotizzabile una modifica degli statuti al fine di consentire alle stesse organizzazioni di essere parti di convenzioni, semplicemente perché non sono in contrapposizione alla legge, anch’essa contraria all’aborto.
Del pari appare inaccettabile che il TAR prospetti in capo alle organizzazioni pro-life una sorta di obbligo di “fornire alla donna in gravidanza le informazioni riguardanti l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza”.
Tralasciando la considerazione che il TAR poco prima ha negato l’esistenza di tale un diritto e poi lo afferma, ciò significherebbe uno stravolgimento della natura e della finalità delle convenzioni.
Le organizzazioni pro-life non “coprono” l’intero percorso della legge 194/1978, pur facendo parte, come efficacemente si esprime lo stesso TAR, “di un percorso informativo e assistenziale preordinato a fare acquisire alla donna una reale consapevolezza del suo status e dei suoi diritti, che potrebbe condurla anche a scegliere il parto anziché l’aborto”.
Certamente in questo percorso vi è l’informazione e l’assistenza, ma le organizzazioni pro-life informano e assistono nella prospettiva di prevenire, perché con questa finalità le donne si sono ad esse rivolte e con questa finalità sono chiamate ad operare in consultori ed ospedali.
Ritenere che dal riferimento alla “attuazione piena della legge 194/1978”, contenuto nella Convenzione, derivi la sussistenza dell’obbligo di fornire informazioni sull’aborto o, peggio ancora, di abdicare alla propria statutaria contrarietà all’aborto stesso, significa operare una profonda mistificazione della legge 194/1978 e dimenticare che in tale legge ognuno ha il suo ruolo e quello delle organizzazioni pro-life è quello di rimuovere le cause che possono indurre la donna ad abortire, non altro.
Questa posizione rappresenta l’ombra più pesante della sentenza in commento, perché travisa la lettura della legge 194/1978, stravolge statuti e finalità delle organizzazioni pro-life e le trasforma in collaboratori di scelte e pratiche abortive.
Marco Schiavi
Laboratorio Giuridico di Federvita Lombardia APS
