VITA NASCENTE E PROSPETTIVE DELLA RU486
Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano 26 ottobre 2024
Il 26 ottobre 2024 si è svolto in Università Cattolica a Milano un convegno sulle implicazioni dell’aborto per via farmacologica. Tra i relatori era presente il dott. Marco Schiavi, membro del Movimento per la Vita Ambrosiano e Consigliere FederVita Lombardia, di cui pubblichiamo l’intervento.
LEGGE 194/1978, ABORTO FARMACOLOGICO E LINEE GUIDA MINISTERIALI: LO SFORZO ILLEGITTIMO PER LIBERALIZZARE E PRIVATIZZARE L’ABORTO
di Marco Schiavi
Dieci anni dopo l’approvazione della legge 194/1978 e precisamente nel 1988 in Francia la pillola RU486 è stata immessa in commercio.
Appare, pertanto, ovvia considerazione che la legge 194/1978 “conosce” soltanto l’aborto chirurgico (raschiamento o isterosuzione) e l’aborto farmacologico mediante la pillola RU486 (mifepristone) ha posto, sin dal principio, questioni giuridiche, ovvero di osservanza, coordinamento ed interpretazione della legge 194/1978, al punto da prospettare una valutazione di contrasto e incompatibilità con la legge 194/1978.
Occorre riconoscere che le “tensioni” tra la RU486 ed il suo peculiare meccanismo di funzionamento, da un lato e le prescrizioni della legge 194/1978, dall’altro, sono diffuse, gravi e pregnanti.
Queste note rappresentano la ripresa dell’intervento svolto in occasione del convegno del 26 ottobre 2024 in Università Cattolica titolato “Vita nascente e prospettive della RU486” e, senza pretesa di esaustività e completezza, intendono porre in evidenza alcuni profili problematici, resi ancora più laceranti dalle Linee guida ministeriali del 2020 e dalla normativa di alcune Regioni.
Il resto è affidato ad altri, con ulteriori e maggiormente meditati approfondimenti.
ABORTO FARMACOLOGICO E OBIEZIONE DI COSCIENZA
Due importanti sentenze della Corte di Cassazione hanno delimitato l’ambito dell’obiezione di coscienza nell’aborto farmacologico.
Con la sentenza n. 14979 del 2 aprile 2013 la Corte ha condannato definitivamente il medico che si era rifiutato di prestare la propria attività “sia in occasione della richiesta di intervenire in sala travaglio per l’espulsione del feto, sia successivamente, quando vi è stata la richiesta d’intervento dopo l’espulsione del feto, ma non anche della placenta”.
La sentenza ha confermato la pronuncia della Corte di Appello di Trieste la quale, con inusitata durezza, aveva condannato il medico obiettore per violazione dell’articolo 328 del codice penale, “omissione di atti d’ufficio”, ad un anno di reclusione, ovvero il doppio del minimo editale e sia pure concedendo la sospensione condizionale della pena, con le conseguenze dell’interdizione per un anno dall’esercizio della professione medica ed il risarcimento in favore della parte civile, ovvero la donna che aveva fatto ricorso all’aborto farmacologico, in misura pari ad ottomila euro.
Analoga conferma della sentenza di condanna di secondo grado per omissione di atti d’ufficio ex articolo 328 del codice penale emessa dalla Corte di Appello di Genova, è stata pronunciata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 18901 del 13 maggio 2021, nei confronti del medico obiettore il quale “in quanto obiettore di coscienza si rifiutò di eseguire l’ecografia – non obbligatoria – tra le due somministrazioni”, nonché l’ecografia di controllo precedente le dimissioni, “aggiungendo che avrebbe visitato le due signore solo nel caso in cui le stesse non si fossero sentite bene”.
Nelle citate pronunce la Corte procede dall’interpretazione dell’articolo 9 comma 3 della legge 194/1978 il quale statuisce che “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”.
La questione giuridica verte sull’applicazione di tale previsione all’aborto farmacologico che, come noto, si struttura nell’assunzione di due principi attivi, ovvero il mifepristone (RU486) e le prostaglandine, a distanza di 48 ore l’uno dall’altro. Come noto, il mifepristone, è tecnicamente un contragestativo, ovvero una sostanza che esplica la sua azione abortiva quando l’embrione è già annidato nell’utero ed ha come scopo dichiarato e diretto la soppressione dell’embrione, attraverso il blocco del progesterone, ovvero l’ormone che sostiene e protegge la gravidanza. La successiva assunzione delle prostaglandine (misoprostolo), provoca contrazioni dolorose la cui funzione è di espellere, attraverso abbondanti emorragie, il feto morto.
La Corte di Cassazione ritiene che nell’aborto farmacologico “la fase rispetto alla quale opera l’esonero da obiezione di coscienza è limitata alle sole pratiche di predisposizione e somministrazione di farmaci abortivi”, tali essendo le “attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione” di cui al citato articolo 9 comma 3.
In tale prospettiva l’espulsione del feto non è attività che rientra nell’ambito dell’obiezione di coscienza in quanto l’interruzione di gravidanza si è già verificata e l’attività di “secondamento”, ovvero l’espulsione del feto ed alla quale è chiamato il medico, non si configura quale “attività diretta a determinare l’interruzione di gravidanza”, trattandosi di attività successiva.
Pertanto, il rifiuto del medico a svolgere tale attività, sussistendo gli altri elementi della fattispecie criminosa, concreta il reato di cui all’articolo 328 del codice penale.
Un breve cenno merita la questione relativa all’elemento soggettivo del reato di omissione di atti d’ufficio, reato necessariamente doloso e per il cui perfezionamento occorre la coscienza e volontà di compiere il reato in tutti i suoi elementi costitutivi.
Trattasi di un aspetto sul quale entrambe le sentenze non appaiono sviluppare approfondite ed adeguate argomentazioni se si considera che:
- dalla natura necessariamente dolosa del reato di cui all’articolo 328 del codice penale discende che il soggetto agente debba rappresentarsi e volere che la condotta omissiva sia posta in essere “indebitamente” (come testualmente richiesto dalla norma penale) e se tale requisito costitutivo del reato deve essere oggetto di rappresentazione e volizione da parte del medico, appare quanto meno problematico ritenerlo sussistente in capo al medico che, richiesto dell’attività di “secondamento”, abbia minacciato di ricorrere alla Procura della Repubblica ed al Comitato etico ospedaliero nella ferma convinzione di esercitare legittimamente il
diritto all’obiezione di coscienza, come attestato dalla sentenza del 2013; - se l’esercizio del diritto, come è l’obiezione di coscienza, appartiene alla categoria penalistica delle cause di giustificazione o scriminanti, rileva l’erronea supposizione che ne abbia il soggetto agente, la quale ne determina la non punibilità, non essendo il reato di omissione di atti d’ufficio previsto nella forma colposa;
- il medico obiettore non si è rappresentato una scriminante ovvero un diritto non esistente nell’ordinamento e, quindi, non vi è questione circa i noti limiti di applicabilità di cui all’articolo 5 del codice penale che disciplina l’ignoranza della legge, trattandosi non già di errore sull’esistenza della scriminante ma, a tutto concedere, di errore sull’ampiezza della scriminante stessa, errore che può determinare l’eccesso colposo ed essere causa di responsabilità penale solo ove il fatto sia previsto dalla legge come reato colposo.
Al contrario, con un’evidente inversione logico-giuridica, la perseveranza nel proposito da parte del medico obiettore, ovvero la sua ferma e motivata convinzione di esercitare il diritto all’obiezione di coscienza, anziché essere valutata sotto il profilo putativo dell’esistenza e dell’esercizio della scriminante è stata considerata nella sentenza del 2013 come indice di particolare “intensità del dolo” ai sensi dell’articolo 133 c.p., una sorta di pervicacia criminale che ha legittimato il severo trattamento punitivo.
Riprendendo l’argomento dell’individuazione nell’aborto farmacologico dell’attività rientrante nell’obiezione di coscienza, le conclusioni della Corte di Appello di Genova, richiamate in maniera adesiva dalla Suprema Corte nel 2021, affermavano che “nella procedura di interruzione volontaria farmacologica il momento abortivo sarebbe coincidente con l’assunzione del primo farmaco, mentre l’assunzione del secondo sarebbe finalizzata alla espulsione del materiale abortivo, e dunque si collocherebbe in un momento successivo rispetto all’aborto”.
Tale conclusione non è condivisibile, al contrario appare coerente con la lettera dell’articolo 9 e l’interpretazione sistematica della legge 194/1978 ritenere che l’”interruzione della gravidanza”, alla quale si riferisce il comma 3 del citato articolo 9, abbia termine quando tutti gli effetti del concepimento e dell’aborto sono rimossi dal corpo della donna, ivi compresa la verifica ecografica che tale completa rimozione abbia avuto luogo.
Questa linea interpretativa conduce a ritenere che l’espulsione del feto e della placenta, costituendo anch’essa un “prodotto del concepimento”, sono ricompresi all’interno dell’interruzione di gravidanza ma, a nostro sommesso parere, lo è anche il successivo controllo ecografico, rappresentando lo strumento di verifica certa e definitiva della completa espulsione del prodotto del concepimento e che solo permette di ritenere concluso l’intervento di interruzione della gravidanza.
Di fronte alla richiesta difensiva nell’ambito del giudizio avanti la Corte di Cassazione nel 2021, di operare un’interpretazione evolutiva dell’articolo 9, ovvero di tenere conto “delle specifiche modalità procedurali previste dal legislatore per l’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica”, la Corte assume una posizione particolarmente restrittiva che induce a ritenere, per lo meno ai fini del terzo comma del citato articolo 9, che l’obiezione di coscienza riguardi unicamente la somministrazione del mifepristone, ovvero del
primo farmaco, quello che determina l’uccisione del feto.
Quanto, invece, all’attività di “predisposizione”, specificamente indicata in entrambe le sentenze, pare coinvolgere i farmacisti ospedalieri che dispensano il farmaco ed i medici ospedalieri che lo prescrivono, i quali potrebbero appellarsi all’obiezione di coscienza per sottrarsi a tali attività.
La critica alla sentenza del 2013, definita “ingiusta”, è stata motivatamente approfondita da Carlo e Marina Casini, i quali hanno sottolineato l’essenzialità dell’espulsione completa del prodotto del concepimento per la definizione dell’ambito dell’obiezione di coscienza, considerando che tale essenzialità si evince agevolmente dalla considerazione che, se non fosse possibile assicurare tale completa espulsione, sarebbe inevitabile astenersi dall’intervento; può darsi che questa garanzia venga data al medico non obiettore che inizia l’intervento dalla struttura sanitaria “ma essa non può certo contare sugli obiettori, costringendoli ad entrare in un percorso che causa l’uccisione di un essere umano”.
Dietro l’interpretazione fatta propria dalla Corte di Cassazione si scorge agevolmente la questione circa l’inquadramento della stessa obiezione di coscienza, ovvero se essa rappresenti una sorta di “graziosa concessione” del potere politico od il frutto di un compromesso raggiunto in sede parlamentare, da un lato o se essa sia l’espressione di valori e principi di rango costituzionale, dall’altro.
Orbene non vi è dubbio che la risposta sia nel secondo senso, come costantemente ribadito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e dalla dottrina, le quali hanno individuato nelle norme di cui agli articoli 2 (diritti inviolabili), 13 (libertà personale), 19 (libertà religiosa) e 21 (libertà di manifestazione del pensiero) il fondamento costituzionale dell’obiezione di coscienza.
L’obiezione di coscienza viene, pertanto, a configurarsi come diritto direttamente azionabile davanti all’autorità giudiziaria (in tal senso Eusebi), alla quale sarà demandata la delicata attività di bilanciamento con gli altri diritti coinvolti nella fattispecie concreta e con i doveri inderogabili (articolo 2 Cost.) che fanno capo all’obiettore, senza necessità dell’interposizione del legislatore, la quale verrebbe a depotenziare lo stesso riconoscimento del fondamento costituzionale dell’obiezione di coscienza.
In questo lavoro ricostruttivo la dottrina più attenta (Casini ed Eusebi) ha affermato che l’obiezione di coscienza è correlata proprio al rango preminente che nell’assetto costituzionale è dato al bene che l’obiettore intende salvaguardare, ovvero, nel caso specifico dell’aborto, il bene – vita e che, pertanto, attraverso l’obiezione si manifesta fedeltà e non rottura rispetto all’ordinamento ed alla gerarchia di valori e beni giuridici che lo stesso configura.
L’eccezione non è, dunque, l’obiezione di coscienza, l’eccezione è la legge 194/1978, la quale lede il bene fondamentale della vita.
La lettura della normativa di rango primario e costituzionale diventa allora coerente:
- la legge 194/1978 non ha introdotto alcun “diritto di aborto” ma ne ha operato una limitata depenalizzazione, come reso palese dalla genesi storica, ovvero la sentenza 27/1975 della Corte costituzionale che ha dichiarato solo parzialmente incostituzionale l’articolo 546 c.p. che puniva il delitto di procurato aborto e dallo stesso articolo 19 della legge 194/1978, il quale punisce con la reclusione l’aborto eseguito in violazione delle procedure e modalità previste dalla stessa legge, con l’eccezione, in alcune ipotesi, della donna alla quale è applicata la sanzione penale della multa;
- l’articolo 9 della legge 194/1978 manifesta un’ampiezza maggiore di quella che la giurisprudenza intende riconoscere, se solo si pone mente all’espressione “prendere parte” all’interruzione di gravidanza che non pare proprio limitarsi alla mera fase chirurgica ma che coinvolge, testualmente, le procedure di cui agli articoli 5 e 7;
- non appare giustificata un’interpretazione restrittiva del diritto all’obiezione di coscienza ma anzi, si impone un’interpretazione estensiva, ovvero un’interpretazione che estenda la lettera della legge nella sua massima portata;
- il riconoscimento del fondamento costituzionale e l’inquadramento nell’ambito della categoria penalistica delle scriminanti o cause di giustificazione, consentono, inoltre, di dare adeguata valorizzazione sia alla ragionevole, per quanto errata, convinzione circa l’esistenza del diritto all’obiezione di coscienza, sia all’interpretazione analogica dello stesso, a soggetti e situazioni non espressamente contemplati dalla norma ma rispetto ai quali ricorre la medesima ratio o esigenza di applicazione;
- in quest’ultima prospettiva appare degna di nota l’estensione del diritto all’obiezione di coscienza sia al personale dotato di compiti dirigenziali ed organizzativi (in tal senso Vallini) che, con riferimento all’aborto farmacologico, all’intero percorso abortivo che si conclude con l’accertamento dell’espulsione di ogni prodotto del concepimento e dell’assenza di ogni complicanza.
I “LUOGHI” DELL’ABORTO
I “luoghi” dell’aborto sono indicati nell’articolo 8 della legge 194/1978.
Occorre premettere che la legge è connotata da un forte aspetto pubblicistico che trova nei “luoghi” dell’aborto una delle sue manifestazioni più rilevanti.
Non è possibile abortire dove si vuole, l’aborto non è considerato alla stregua di una mera attività sanitaria per svolgere la quale è necessario e sufficiente predisporre personale sanitario e strutture dotati di qualifiche professionali e requisiti di sicurezza ed igiene.
Non è possibile in Italia organizzare strutture per “erogare servizi abortivi” del tipo “Planned Parenthood” e simili a quelle già esistenti e relative alle cure dentali.
Gli stessi lavori preparatori della legge 194/1978 appaiono inequivoci sul punto, affermando che “è necessario garantire, con una legge positiva, che l’interruzione della gravidanza sia eseguita da medici qualificati, in strutture sanitarie pubbliche o garantite da controllo pubblico”.
I luoghi menzionai nel citato articolo 8 sono tre:
- ospedali;
- case di cura, autorizzate dalla Regione;
- poliambulatori pubblici, autorizzati dalla Regione.
Non sono compresi i consultori e non è prevista l’abitazione privata, della donna o di altri.
I consultori, realtà istituzionale nota al legislatore del 1978 ed ai quali la legge 194/1978 affida il compito di attivarsi per evitare l’aborto, subirebbero uno stravolgimento del loro ruolo, con un’inaccettabile commistione tra la prevenzione dell’aborto e l’offerta del farmaco abortivo, ove fosse prevista la somministrazione al loro interno della RU486.
Consentire, invece, l’interruzione della gravidanza nelle abitazioni private significherebbe aderire ad una concezione privatistica dell’interruzione di gravidanza, in contrasto con le previsioni della legge 194/1978, i lavori preparatori che testimoniano in maniera chiara sul punto l’intenzione del legislatore ed il contesto normativo nel quale si colloca l’interruzione di gravidanza, in particolare la giurisprudenza della Corte Costituzionale la quale, a partire dalla sentenza 27/1975, ha inteso costantemente l’aborto come una sorta di extrema ratio, nella prospettiva dell’intervento pubblico a tutela della vita e della salute della donna.
Questa rigidità dei “luoghi” è strettamente correlata alla procedura che deve obbligatoriamente precedere l’aborto, per evitare il quale sono previste molteplici attività, da parte dei consultori, dei servizi sociali e delle “idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
Queste osservazioni non intendono, ovviamente, manifestare alcun consenso alla legge 194/1978 ma sottolineare con forza la “distanza” delle previsioni della legge rispetto alla prassi applicativa, alle richieste di “liberalizzare” l’aborto quanto ai luoghi ove è praticato ed al riconoscimento del “diritto di aborto”, elementi tutti che sono accomunati dalla perseguita prospettiva di una inammissibile abrogazione “tacita” della legge ed in particolare del rispetto delle procedure previste dalla legge stessa per evitare o, per lo meno, ridurre il ricorso all’aborto.
In questa sede si intende delineare il quadro normativo e l’impossibilità, almeno giuridica, che attraverso l’aborto farmacologico questo quadro normativo sia stravolto e violato in senso ancora più abortista, oltre e senza i “limiti” posti dalla legge 194/1978.
“PRATICARE” L’INTERRUZIONE DI GRAVIDANZA
La legge non si limita ad indicare i luoghi ma specifica che l’interruzione di gravidanza “è praticata” nei luoghi indicati e nel rispetto delle procedure delineate e tale affermazione si riferisce all’intero percorso sanitario ed assistenziale.
Se l’aborto chirurgico si caratterizza per la contestualità tra la fase di distacco dall’utero e la morte ed espulsione del feto, nell’aborto farmacologico, non essendo presente tale contestualità, deve necessariamente essere ricompresa la fase dell’espulsione di ogni prodotto del concepimento e del relativo controllo ecografico, per potersi affermare che l’interruzione di gravidanza è stata “praticata”.
Le stesse pronunce della Corte di Cassazione precedentemente citate in tema di obiezione di coscienza non hanno mai prospettato una definizione di minore ampiezza dell’interruzione di gravidanza laddove sia eseguita farmacologicamente, affermando chiaramente la Corte nel 2021 che “la doverosa assistenza successiva alla somministrazione dei farmaci è certamente parte del procedimento di interruzione della gravidanza ma non è finalizzata alla interruzione di questa”.
Pur non avendo condiviso la ristretta individuazione dell’area di liceità dell’obiezione di coscienza nell’aborto farmacologico, appare chiaro che la Suprema Corte non intende assolutamente definire come “interruzione volontaria di gravidanza” la sola fase della predisposizione e somministrazione della pillola abortiva, richiamando ed aderendo alla pronuncia di appello che configura l’interruzione di gravidanza come “una procedura distinta in più fasi” che “non si considera conclusa con la ecografia funzionale alle dimissioni ma solo con quella eseguita entro i 14 – 21 giorni successivi alle dimissioni”.
L’aborto “a domicilio” è un reato, come ha avuto occasione di ribadire la Corte di Cassazione con la sentenza n. 44107 del 29 novembre 2011 con la quale ha condannato la donna che all’ottava settimana di gravidanza aveva assunto il Cytotex, farmaco utilizzato per le terapie contro l’ulcera e che provoca forti contrazioni capaci di determinare l’espulsione del feto. Nel caso concreto si imputava alla donna proprio la violazione delle procedure di cui agli articoli 5 e 8 della legge 194/1978.
L’articolo 8 non pone unicamente un requisito di “luogo” ma indica il soggetto al quale spetta “praticare” l’aborto, ovvero “un medico del servizio ostetrico-ginecologico”.
Il luogo ove si pratica l’interruzione ed il soggetto che la esegue non sono requisiti in contrapposizione o tra i quali occorre valutare il più idoneo, sono due requisiti che devono essere entrambi congiuntamente presenti.
In particolare, la presenza del medico si lega in maniera ancora più pregnante all’esigenza di tutela e salvaguardia della salute della donna, come rendono evidenti una serie di prescrizioni della legge 194/1978 che attestano la necessità della presenza del medico durante l’intero processo abortivo ed in particolare:
- lo stesso articolo 8 secondo il quale “il medico verifica anche l’inesistenza di controindicazioni sanitarie”;
- l’articolo 17 il quale al medico che “esegue” l’intervento impone di “adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”;
- l’articolo 14 che, sempre con riferimento al medico che “esegue” l’interruzione della gravidanza, impone di rispettare “la dignità personale della donna” e di verificare “processi patologici”.
L’aborto farmacologico, pur strutturato nelle due fasi temporalmente distinte dell’uccisione e dell’espulsione del feto, ciascuna delle quali determinata da diverse sostanze, si colloca e deve collocarsi all’interno di questa cornice e deve prevedere, per l’intero processo abortivo, il rispetto delle norme della legge 194/1978.
“LE TECNICHE ABORTIVE PIU’ MODERNE”
ED IL REQUISITO DELLA “MINOR RISCHIOSITA’” PER LA SALUTE DELLA DONNA
Il tema della salute della donna e della sicurezza dell’intervento abortivo trova la sua emersione, quanto all’aborto farmacologico, nell’articolo 15 della legge 194/1978.
Se è vero che il legislatore della legge 194/1978 ha disciplinato l’aborto con riferimento esclusivo a quello chirurgico, nell’articolo 15 della legge ha demandato alle Regioni l’individuazione di “tecniche più moderne” le quali, oltre evidentemente al rispetto delle prescrizioni della legge 194/1978, devono essere “più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna” e “meno rischiose” per la salute della stessa.
L’aborto farmacologico, a tacer d’altro, pone un serio problema di compatibilità rispetto al requisito della “minor rischiosità”.
Il Consiglio Superiore di Sanità nel parere al Ministero della Sanità in data 18 marzo 2010, riprendendo i precedenti pareri del 18 marzo 2004 e del 20 dicembre 2006, formulati in diversa composizione, affermava che dal confronto tra l’interruzione di gravidanza chirurgica e quella farmacologica “emergerebbe un profilo di sicurezza inferiore dell’IVG farmacologica rispetto a quello dell’IVG chirurgica”.
Per il Consiglio Superiore di Sanità le questioni erano di due tipi:
- “sulla base della responsabilità del medico conferita a quest’ultimo dalla legge 194 e sulla base del principio di precauzione” è necessario “garantire la massima sicurezza alla donna che ricorre all’IVG”;
- le norme della legge 194/1978 “devono ritenersi applicabili anche all’aborto farmacologico, che dell’interruzione di gravidanza rappresenta una species”.
In particolare il Consiglio riteneva che la norma di cui all’articolo 8 “si applichi tanto all’aborto chirurgico, quanto a quello farmacologico” e, pertanto, il “nucleo essenziale delle garanzie dettate dall’articolo 8 a tutela della salute della donna”, ovvero presenza di un medico specializzato e ricovero presso le strutture previste dalla legge, “opera anche nell’ipotesi in cui quest’ultima (la donna) ricorra all’aborto farmacologico anziché a quello chirurgico”.
La ricostruzione del Consiglio Superiore di Sanità conduceva alla conclusione, fatta propria dalle linee guida ministeriali del 2010, che la compatibilità tra l’aborto farmacologico e la legge 194/1978 era possibile unicamente prevedendo che “il percorso dell’interruzione volontaria di gravidanza avvenga in regime di ricovero ordinario fino alla verifica della completa espulsione del prodotto del concepimento”.
Il parametro della “minor rischiosità” è vincolante quanto alle tecniche abortive, rappresentando principio generale della legislazione nazionale al quale le Regioni, nell’ambito della competenza costituzionale in materia di sanità, devono attenersi, preoccupazione presente nel citato parere del Consiglio Superiore di Sanità che sottolineava il “fine di garantire il rispetto della legge 194/78 su tutto il territorio nazionale”.
Tale prospettiva muta radicalmente nel parere reso dal Consiglio Superiore di Sanità in data 4 agosto 2020 e che ha determinato il mutamento delle linee guida del 2010.
Emblematicamente il parere è originato dalla richiesta della Direzione generale della prevenzione sanitaria “al fine di favorire, ove possibile, il ricorso all’interruzione di gravidanza con metodo farmacologico in regime di day hospital e in regime ambulatoriale”, finalità che si intende perseguire sul piano amministrativo, al riparo da ogni confronto pubblico e parlamentare.
Il parere del 4 agosto 2020 rappresenta un coacervo di motivazioni ininfluenti e contrastanti rispetto alla normativa di cui alla legge 194/1978;
- irrilevanti appaiono i riferimenti alla normativa ed alle esperienze europee, come aveva già sottolineato il Ministro Sacconi nell’informativa all’Unione europea, essendo l’intera materia dei farmaci contraccettivi e abortivi di stretta competenza nazionale;
- privo di forza normativa è il rimando ad esperienze straniere che ammettono “l’assunzione delle prostaglandine a casa senza necessità di un secondo accesso presso l’Ospedale”, con specifico riferimento alla normativa francese che si spinge fino ad ammettere “l’assunzione dei farmaci per l’aborto medico interamente al di fuori dell’Ospedale” ed il relativo acquisto direttamente in farmacia, riferimento operato in maniera asettica e destinato ad una valutazione de iure condendo, non certamente appropriato nel contesto di un parere de iure condito;
- francamente imbarazzante, proprio nella prospettiva di tutela della salute alla quale parrebbe deputato il Consiglio Superiore di Sanità, è il riferimento al “notevole risparmio economico” che l’aborto farmacologico consente di ottenere rispetto a quello chirurgico, evocandosi un parametro che non solo è al di fuori delle competenze medico-scientifiche del Consiglio Superiore di Sanità ma non è contemplato nell’articolo 15 della legge 194/1978 che mai ha inteso ammettere “nuove tecniche abortive” meno costose, diversi essendo i parametri di ammissione menzionati nel citato articolo 15.
Soprattutto appare significativa la circostanza che il parere non si sottrae, comunque, essendo un fatto notorio, dal sottolineare la maggiore rischiosità che l’aborto farmacologico possiede rispetto a quello chirurgico.
Interessante rilevare al riguardo come il Consiglio Superiore di Sanità riconosca che la percentuale di casi nei quali “non sono state riportate complicanze immediate” è pari al 96,5%, ovvero, scrive tra parentesi, “percentuale simile a quella del 2010-2011”, significando, a contrario, che la percentuale di casi nei quali sono state riportate complicanze immediate, sia rimasta invariata e, quindi, la permanenza del medesimo livello di rischiosità per la donna rispetto al parere del 2010, ovvero, per riassumere, “nulla è cambiato nella realtà… tranne il parere sulla realtà”, un contemporaneo adattamento dell’atteggiamento secondo il quale “se i fatti non coincidono con la nostra idea… tanto peggio per i fatti”.
Lo stesso parere del Consiglio Superiore di Sanità, citando “letteratura scientifica”, afferma che “l’assunzione di prostaglandine può avvenire in Ospedale (secondo accesso in Day-hospital) o anche, se la donna lo desidera, a casa”, non manca, probabilmente in un rigurgito di “onestà intellettuale”, di evidenziare che, “se la donna sceglie di assumere le prostaglandine a casa è necessario verificare con lei che non esistono controindicazioni a ciò, ovvero: la donna è da sola in casa, non è possibile che raggiunga l’ospedale con facilità, non è in grado di comprendere quello che le accadrà, è molto in ansia o non è in grado di rispettare le raccomandazioni per la successiva verifica del successo del trattamento o altre valutazioni del medico”.
In conclusione, il Consiglio Superiore di Sanità da un lato riconosce il permanere della maggiore rischiosità dell’aborto farmacologico rispetto a quello chirurgico, dall’altro è carente, per non dire assente, una valutazione di compatibilità dell’aborto farmacologico con le previsioni della legge 194/1978, concludendosi non solo con il prolungamento da 7 a 9 settimane del periodo di gestazione durante il quale è possibile il ricorso all’aborto farmacologico, ma con ammettere day hospital, ambulatori e consultori come modalità e luoghi dell’aborto farmacologico, conclusioni che saranno poi recepite dal Ministero della Sanità nelle Linee Guida dell’agosto 2020.
I profili di “tensione”, se non di aperto contrasto, tra l’aborto farmacologico e la disciplina della legge 194/1978, hanno condotto Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella già nel 2006 ad ipotizzare la necessità di una modifica legislativa, sull’esempio francese.
Invero la riflessione delle due autrici è significativa: la legge 194/1978 è modellata sull’aborto chirurgico e l’unica prospettiva di conciliazione rimane quella fatta proprio dal Consiglio Superiore di Sanità nei pareri precedenti al 2020. E’ evidente che il ricovero ordinario per l’intero percorso abortivo non è accettato da chi, proprio attraverso l’aborto farmacologico, intende scardinare e rendere ancora più permissiva la legge 194/1978, utilizzando strumenti normativi in violazione dei principi generali della legislazione statale, di cui la legge 194/1978 è espressione, strumenti normativi che possono consistere nella legge regionale o in provvedimenti amministrativi della giunta regionale o di dirigenti apicali, con palese violazione dei limiti di competenza anche costituzionale.
Ed è proprio quanto le linee guide del Ministero della salute ed alcune Regioni stanno perseguendo in maniera pervicace ed illegittima, stravolgendo il sistema delle fonti del diritto, come configurato a livello costituzionale ed a garanzia del corretto funzionamento dei meccanismi rappresentativi di democrazia parlamentare.
LE LINEE DI INDIRIZZO MINISTERIALI:
(IN)EFFICACIA VINCOLANTE E (IL)LEGITTIMITA’
Le “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine” sono oggetto della comunicazione da parte del Ministero della Salute alle Regioni ed alle Province autonome di Trento e Bolzano in data 12 agosto 2020, sulla scia del citato parere del Consiglio Superiore di Sanità del 4 agosto 2020 e della Determina n. 865 del 12 agosto 2020 dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).
Preliminarmente occorre valutarne l’efficacia normativa.
Occorre premettere che a differenza di altre leggi, quali la legge 40/2004 relativa alla Procreazione Medicalmente Assistita, la legge 194/1978 non contempla Linee di indirizzo o Linee guida o generiche Raccomandazioni con la funzione di integrare il precetto normativo, adeguandolo a specifici sviluppi della scienza e della tecnica.
Per riconoscere efficacia vincolante ad un atto dell’autorità amministrativa e dei suoi consulenti, tali sono rispettivamente il Ministero della Salute ed il Consiglio Superiore di Sanità, occorre che la fonte e la sede di tale attribuzione di efficacia, sia un atto avente forza di legge.
Non è ipotizzabile, per il rispetto dovuto al principio di gerarchia delle fonti del diritto, che l’efficacia vincolante sia rimessa alla decisione dell’autorità amministrativa, perché, se da un lato vi è l’esigenza di garantire flessibilità alla normativa, dall’altro non può essere tralasciato il principio che al Parlamento ed alla legge spetta di stabilire se non proprio tutto il contenuto della norma, almeno la parte della norma il cui
contenuto può essere integrato da una autorità inferiore ed amministrativa.
Si tratta di un’impostazione accolta anche dalla giurisprudenza costituzionale che riconosce alle Linee guida la funzione di completamento delle disposizioni di rango legislativo che le richiamano e con le quale formano un unico corpo normativo.
Se alle Linee guida in materia di aborto farmacologico non può essere attribuita un’efficacia vincolante nell’ambito dell’ordinamento giuridico generale, il loro regime giuridico può essere assimilato a quello delle circolari, espressione del generale potere riconosciuto alla pubblica amministrazione di auto-organizzazione ed in particolare:
- giustiziabilità, ovvero suscettibilità di impugnazione ed annullamento unitamente all’atto lesivo applicativo da parte del giudice amministrativo;
- disapplicazione per illegittimità nel caso concreto da parte del giudice ordinario;
- non vincolatività nei confronti degli stessi soggetti della pubblica amministrazione, a carico dei quali può essere posto unicamente un onere motivazionale aggiuntivo qualora intendano discostarsi da esse (in tal senso D’Orlando e Nassuato).
Le Linee guida in materia di aborto farmacologico, rivolte alle Regioni ed alle Province autonome, non hanno avuto l’esito di uniformare l’agire degli enti locali costituzionali ai quali erano rivolte.
In particolare, le Linee guida del 2010 sono state oggetto di plurime violazioni da parte delle Regioni, specialmente nel consentire il ricovero in Day-hospital e non risulta che nei confronti di alcuna di esse siano state intraprese particolari iniziative volte a contestarne il mancato recepimento o, addirittura, l’aperta violazione.
Le Linee guida del 2020 hanno intensificato la confusione e la difformità di comportamenti da parte delle Regioni sia in senso restrittivo, nel rispetto della legge 194/1978, che in senso marcatamente estensivo, in violazione della legge 194/1978.
Le critiche alle Linee guida 2020 sono plurime e coinvolgono diversi profili di illegittimità.
Riprendendo le considerazioni sopra svolte, Eugenia Roccella ha affermato che “le cosiddette linee guida non costituiscono quindi un obbligo per nessuno”, riducendole ad una mera “proposta” avvalorata dal parere del Consiglio Superiore di Sanità ed aggiungendo che “la possibilità di effettuare gli aborti nei consultori, per esempio, è in aperto contrasto con la 194, che affida ai consultori solo compiti di prevenzione e non li nomina all’articolo 8 nell’elenco delle strutture in cui si possono eseguire gli interventi di interruzione di gravidanza” (Avvenire, “Quell’indirizzo che non cambia la legge”, 22 ottobre 2020).
Assuntina Morresi si spinge oltre, ipotizzando in maniera provocatoria, non priva di aggancio normativo, che “il Ministro Speranza dovrebbe essere punito con la reclusione fino a tre anni”, come previsto dall’articolo 19 della legge 194/1978 per la violazione del citato articolo 8 (Avvenire, “Ru486 a casa, l’aborto silenziato”, 6 ottobre 2022).
La mancata considerazione della “salute” della donna, di fronte alla maggiore rischiosità dell’aborto farmacologico rispetto a quello chirurgico, si traduce in un vizio di legittimità delle linee guide per violazione dell’articolo 15 della legge 194/1978. Le linee di indirizzo non intendono prendere posizione su questo aspetto ma potrebbe dirsi che “la toppa è peggiore del buco”, perché riconoscono candidamente che per quanto concerne la “quantità e qualità di effetti collaterali” questi “sono variabili e non stimabili a priori”, salvo fornire quanto al sanguinamento, un criterio che definisce le perdite di sangue “importanti”, quando occorre “cambiare 4 assorbenti esterni maxi o large nel tempo di due ore”, al che “è fondamentale andare subito in pronto Soccorso per una visita e un controllo ecografici”.
Se questa è la “minore rischiosità” dell’aborto farmacologico nel rispetto dell’articolo 15 della legge 194/1978…
LA “DIGNITA’” DELLA DONNA NELL’ABORTO FARMACOLOGICO
Un altro profilo problematico delle Linee d’indirizzo è quello relativo alla forte responsabilizzazione della donna, alla quale fa riscontro un’eccessivamente ampia deresponsabilizzazione della struttura e del personale sanitario.
Invero, come riportano le Linee d’indirizzo:
- la donna deve essere pienamente consapevole della procedura, delle alternative disponibili e di eventuali effetti avversi;
- la donna deve offrire un’attiva collaborazione nella procedura;
- essendo la procedura in parte autogestita, la donna deve avere chiaramente compreso il percorso dell’aborto farmacologico.
Si tratta di una situazione che fa emergere un ulteriore ed eventuale contrasto tra l’aborto farmacologico e la legge 194/1978, ponendo la questione se l’aborto farmacologico sia rispettoso dell’”integrità psichica della donna” di cui all’articolo 15 e se possa essere considerato una procedura abortiva attuata “in modo da rispettare la dignità personale della donna” di cui all’articolo 14 della stessa legge 194/1978.
Non pare un interrogativo peregrino, al quale si possa rispondere in termini di “privatizzazione” dell’interruzione di gravidanza, non sotto il profilo delle strutture e del personale, ma qualificandola come una scelta della donna nel contesto di un usuale trattamento sanitario fondato sul consenso informato e consapevole.
Tale opzione interpretativa non è sostenibile e non solo perché l’aborto non è un “diritto”, ma perché il riferimento alla “dignità” non consente di affermare che la donna sia unico ed insindacabile arbitro della propria dignità.
E‘ ormai orientamento consolidato della stessa giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, che l’ordinamento giuridico tutela il “nocciolo duro” della dignità, che non può essere oggetto di disposizione neppure da parte della persona titolare della dignità stessa.
Tale orientamento si è manifestato nella pronuncia della Corte costituzionale (7 giugno 2019 n. 141) in materia di prostituzione (legge Merlin) che ha affermato la piena legittimità costituzionale delle norme che puniscono il favoreggiamento della prostituzione nonostante il consenso della donna e nella pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (30 dicembre 2022 n. 38162) che ha ribadito come, nonostante l’eventuale consenso della madre surrogata, l’utero in affitto rimane illecito.
La ratio decidendi è nella considerazione che sia la prostituzione che l’utero in affitto offendono in maniera grave la dignità della persona, al punto che l’ordinamento vieta alla stessa persona di disporne, proprio per mantenere quella misura di dignità che rappresenta il carattere imprescindibile ed essenziale dell’essere umano.
In questa prospettiva la tecnica dell’aborto farmacologico, per l’oggettivo abbandono della donna da parte dell’apparato pubblico nel quale è, invece, incardinata l’interruzione di gravidanza secondo la legge 194/1978, nel porre a carico della donna in virtù del consenso informato, che si riduce a mera pratica burocratica e di routine, ogni conseguenza avversa, nella riduzione dell’aborto farmacologico ad un trattamento sanitario privo delle sue specificità di cui la legge 194/1978 è espressione, quanto ai luoghi, alle procedure, alle cause, al ruolo ed alle problematiche della donna, non va esente da considerazioni circa il rispetto della “dignità” e della “integrità psichica” della donna, ponendo, ancora una volta, la questione circa la compatibilità con la legge 194/1978 e la necessità di un intervento a livello del legislatore statale e non di fonti normative di rango inferiore, qualora sussista una maggioritaria e pubblica volontà politica di ammettere e regolamentare tale tecnica abortiva.
I PARERI DELLA SOCIETA’ ITALIANA DI OSTETRICA E GINECOLOGIA
Allegati alle Linee di indirizzo sono due pareri della Federazione Società Italiana di Ostetricia e Ginecologia (SIGO) il primo dei quali, in data 25 giugno 2020, dopo un formale e vuoto ossequio agli articoli 8 e 15 della legge 194/1978, afferma che “il Mifepristone può essere somministrato sia in Consultorio che nell’Ambulatorio ospedaliero dedicato al momento primo accesso”, con aperta violazione della procedura prevista dall’articolo 5 della legge 194/1978 la quale prevede, successivamente al colloquio presso il consultorio o la struttura socio – sanitaria, il rilascio del documento che attesta il colloquio e prevede l’attesa di sette giorni, il c.d. periodo di riflessione, solo decorso il quale è possibile procedere all’intervento abortivo. Ancora la SIGO, premesso un ininfluente richiamo ad esperienze straniere, sostiene la “scelta di permettere l’assunzione delle prostaglandine a casa”, etichettando tale scelta come adeguamento a “pratiche sicure”, ma non certamente legittime, stanti le previsioni dell’articolo 8 circa i luoghi e l’assistenza necessaria per l’interruzione di gravidanza, nel cui ambito non può non rientrare il farmaco che causa l’espulsione del prodotto del concepimento.
Le Linee di indirizzo richiamano ripetutamente ed in maniera adesiva i due pareri SIGO senza manifestare in alcun passaggio un diverso orientamento.
In tal modo le Linee guida alimentano opinioni in palese contrasto con la legge 194/1978, fatte proprie da alcune Regioni in una “corsa” all’allargamento degli ambiti e della procedura dell’aborto farmacologico.
LA NORMATIVA REGIONALE:
AMPLIAMENTO DELL’ABORTO FARMACOLOGICO E
CONTRASTO CON LE PRESCRIZIONI DELLA LEGGE 194/1978
Le Linee di indirizzo del 12 agosto 2020 non solo presentano indubbi profili di illegittimità per violazione della legge 194/1978 ma pongono anche delicati problemi di raccordo con la legislazione regionale.
In termini sintetici, la Sanità, nel riparto costituzionale di competenze, è materia a legislazione concorrente, ovvero al legislatore nazionale competono i principi generali ed alle Regioni la loro applicazione e la pratica gestione.
Orbene, come si è argomentato, le Linee guida appaiono carenti di efficacia vincolante nei confronti delle Regioni in quanto:
- non hanno alcun riferimento legislativo che le preveda e le regolamenti;
- sono in contrasto con le previsioni della stessa legge 194/1978;
- sono invasive del riparto di competenze a livello costituzionale.
Pur non essendo questa la sede per una ricognizione del recepimento o del mancato recepimento delle Linee guida nelle Regioni italiane, si intende a conclusione di queste brevi note, prestare attenzione ad alcune normative regionali che hanno inteso recepire alcuni aspetti delle Linee guida e degli atti richiamati (parere Consiglio Superiore di Sanità e pareri Federazione SIGO) ed hanno conseguentemente operato delle modifiche alla normativa regionale che destano forti preoccupazioni per il palese contrasto con la legge 194/1978.
La Regione Emilia Romagna già dopo le Linee guida del 2010 si era segnalata per un parere della Commissione di consulenza legislativa della Giunta regionale che perveniva alle seguenti conclusioni:
- dalle disposizioni della legge 194/1978 non si può far discendere l’obbligatorietà del regime di ricovero ordinario per i trattamenti di IVG;
- le modalità di somministrazione di un farmaco ospedaliero in regime di ricovero ordinario o di Day Hospital non possono ricondursi alla competenza statale;
- il parere del Consiglio Superiore di Sanità è reso nell’esercizio di una funzione consultiva e non possiede effetti vincolanti nei confronti della pubblica amministrazione.
Quanto al punto 1) la replica si affida all’articolo 8 della legge 194/1978, il quale prevede i “luoghi” ove si “pratica” l’aborto senza alcuna possibilità di “spezzettare” la procedura che mantiene un carattere fortemente unitario, pur articolandosi in più fasi, sotto il continuo e costante controllo del medico “del servizio ostetrico – ginecologico”, il che si traduce nella necessità del ricovero ospedaliero ordinario.
Quanto al punto 2) il tema non è propriamente la “somministrazione di un farmaco ospedaliero” ma la disciplina dell’aborto ed è pacificamente riconosciuto che alla somministrazione del farmaco abortivo, quale tecnica specifica, si applica la disciplina di cui alla legge 194/1978.
Quanto al punto 3) è l’unico su cui è possibile concordare con la Regione Emilia Romagna in ordine alla mancanza di efficacia vincolante dei pareri del Consiglio Superiore di Sanità, mero organo consultivo del Ministero della Salute.
La Regione Emilia Romagna ha inteso completare il percorso di “allontanamento”, il che significa inosservanza e violazione delle prescrizioni della legge 194/1978, con la Determinazione del Dirigente del Settore n. 21024 in data 9 ottobre 2024 che ha reso definitiva, superato il periodo di “sperimentazione”, la somministrazione dell’aborto farmacologico, ovvero il mifepristone, in Consultorio e la consegna delle prostaglandine alla donna, affinché quest’ultima proceda nel proprio domicilio alla auto-somministrazione.
Se la somministrazione del farmaco abortivo all’interno del Consultorio costituisce, come già osservato, una palese violazione dell’articolo 8 della legge 194/1978, il secondo passaggio costituisce un’aperta destrutturazione della legge 194/1978.
Ritenere che l’interruzione di gravidanza sia praticata nei luoghi e con l’intervento del personale sanitario unicamente per quanto attiene alla somministrazione della prima pillola (mifepristone) realizza una interpretatio abrogans di prescrizioni inderogabili della stessa legge.
Che la donna successivamente all’assunzione del mifepristone e delle prostaglandine possa chiedere ed ottenere le dimissioni volontarie dal ricovero ordinario al quale è sottoposta, rappresenta un’eventuale espressione della libertà personale e della conseguente autoresponsabilità. La donna riceverà ogni necessaria informazione relativa ai rischi ed agli eventi ai quali può andare incontro e la struttura sanitaria nel suo complesso, ente e personale sanitario, subirà la scelta della donna.
Il quadro è totalmente diverso se si ipotizza che:
- l’assunzione delle prostaglandine anziché avvenire nella struttura sanitaria avvenga nel domicilio della donna alla quale le prostaglandine sono consegnate;
- sia la fase di travaglio indotto dal farmaco abortivo che l’espulsione del feto e della placenta anziché essere previsti come eventi che si verificano unicamente nell’ambito della struttura sanitaria, unica opzione normativamente prevista, siano “normale” opzione, strutturata ed organizzata nelle singole fasi, proposta alla donna dalla struttura sanitaria, con sostanzioso supporto di informazioni sulla “rischiosità” e ampio consenso informato, evidente deresponsabilizzazione della struttura sanitaria;
- la struttura sanitaria non si limita a prendere atto della richiesta di dimissioni volontarie dopo la somministrazione del primo o del secondo farmaco, come era nella logica delle Linee guida del 2010 che contemplavano il ricovero ordinario quale unica modalità organizzativa dell’aborto farmacologico, ma struttura l’intero percorso abortivo in contrasto con le prescrizioni in derogabili della legge 194/1978.
L’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico si articola in più fasi ma non è dato alle Regioni il potere di consentire che almeno due di queste fasi, assunzione delle prostaglandine ed espulsione del prodotto del concepimento, siano accettate e proposte come fasi che si svolgano a “domicilio”, per la cui verifica della “maggiore rischiosità” è sufficiente una superficiale lettura degli allegati al consenso informato. Se le norme della legge 194/1978 costituiscono principi generali ai quali devono adeguarsi le Regioni, ciò che lascia oltremodo perplessi è che tale provvedimento non sia espressione della potestà legislativa affidata al Consiglio regionale e neppure sia stato emanato dalla Giunta regionale, ma, proprio sulla scia delle Linee guida ministeriali, costituisca un mero atto amministrativo, senza un passaggio politico e necessariamente pubblico, con motivazioni che eludono il punto fondamentale ovvero la compatibilità con la legge 194/19078 ed il rispetto della gerarchia delle fonti che colloca la legge statale 194/1978 in posizione di preminenza rispetto alla legge regionale, senza che sia nemmeno possibile ipotizzare un confronto con la determinazione di un funzionario regionale.
La Regione Umbria si adegua alle Linee guida ministeriali con la Deliberazione della Giunta regionale n. 1173 del 2 dicembre 2020, un atto di natura formalmente amministrativa, sia pure con assunzione di responsabilità politica.
La Giunta regionale consente l’aborto farmacologico, “nelle strutture pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale e autorizzate dalla Regione – di cui all’Allegato che costituisce parte integrante e sostanziale del presente atto, lasciando comunque alla donna la possibilità di scegliere il regime di ricovero come previsto dalla legge 194/1978”.
Tale ultima precisazione non appare convincente.
La Giunta regionale riconosce espressamente che il regime di ricovero è “previsto dalla legge 194/1978” e tale considerazione conduce de plano ad un dilemma interpretativo:
- o si nega il carattere pubblicistico ed inderogabile della legge 194/1978, come, peraltro, riconoscono anche i sostenitori della piena liberalizzazione dell’aborto al punto da ipotizzare modifiche legislative e referendum per superare la rigidità normativa, come l’Associazione Luca Coscioni;
- o, interpretate le norme nel senso dell’imperatività, attesa la natura pubblica ed il rango costituzionale dei diritti e degli interessi coinvolti, non vi è spazio per una scelta rimessa alla donna, sempre in quanto la norma dell’articolo 8, per limitarci ai “luoghi” dell’interruzione di gravidanza, impone all’apparato pubblico di predisporre e proporre una unica modalità di interruzione della gravidanza, ovvero che l’intera procedura sia “praticata” nei luoghi ivi indicati.
Nella Deliberazione della Regione Umbria il rispetto della modalità prevista dalla legge 194/1978 diventa un’opzione secondaria rimessa alla volontà della donna, essendo l’organizzazione del servizio pubblico modellata diversamente, quasi trovandosi a “subire” la scelta della donna che, in osservanza alla legge 194/1978, richiede il ricovero ospedaliero per l’interruzione di gravidanza con la tecnica farmacologica.
Il quadro delle determinazioni regionali è composito e, per rimanere nell’ambito di brevissimi cenni, può essere menzionata la Regione Lazio la quale già nel 2013, in violazione delle Linee guida del 2010, aveva approvato, il “Protocollo operativo per l’assistenza alla donna che richiede l’IVG medica” che prevedeva lo svolgimento della procedura in regime di Day-Hospital.
Successivamente alle Linee guida ministeriali del 2020 la Regione Lazio si è collocata nella linea di consentire la consegna delle prostaglandine alla donna, la quale procederà nel proprio domicilio alla relativa assunzione, confermando gli elementi di violazione della legge 194/1978, privatizzazione della procedura abortiva, responsabilizzazione della donna e acquisizione da parte della struttura pubblica di generici, burocratici e formali consensi informati.
In conclusione si deve rilevare come la competenza regionale in materia di sanità e l’adozione di provvedimenti amministrativi da parte delle regioni, conducano ad una sorta di “nascondimento” della materia dell’aborto farmacologico, sottratto al pubblico dibattito che generalmente accompagna le deliberazioni legislative dei Consigli regionali.
L’aborto si avvia a diventare materia sempre più “amministrativa”, il che porta con sé una svalutazione delle tematiche correlate, fenomeno che si è già notato nell’ambito della pillola “del giorno dopo” e “dei cinque giorni dopo”. In effetti le normative regionali mirano ad una somministrazione che, se ancora non avviene liberamente nelle farmacie, tende ad essere snellita nei suoi passaggi procedurali, traducendosi in una sorta di “atto dovuto” dove non vi è traccia alcuna dell’attività, questa obbligatoria, volta alla rimozione delle cause dell’aborto.
E’ una deriva preoccupante sotto vari profili, molti dei quali più importanti di quello prettamente giuridico.
Per quanto riguarda quest’ultimo profilo occorre sottolineare con forza la violazione della legge 194/1978 in una prospettiva di liberalizzazione dell’aborto, amministrativizzazione della normativa, deresponsabilizzazione della struttura pubblica, privatizzazione della procedura.
L’aborto rimane una grande questione aperta e, come ammoniva Chesterton, le grandi questioni devono essere decise da tutti, ai tecnici si possono lasciare i dettagli e non pare che l’aborto farmacologico appartenga a questa categoria.