Il coraggio di vivere e di far vivere

Intervento del prof. Mario Melazzini al convegno “L’eclissi della bellezza – Genocidi e diritti umani” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore – sede di Brescia – 11 febbraio 2007.

Mario Melazzini è presidente della ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA (resterà fino al 2012) che rappresenta i circa 5.000 malati di SLA in Italia. Il prof. Gianni Mussini, che lo introduce, spiega che Mario ha testimoniato il suo attaccamento alla vita durante il “caso Welby” quando si cercava di forzare la mano verso una politica e una cultura che portano alla morte.
Ci porta il suo contributo personale su quello che è per lui il diritto alla vita della persona fragile, della persona malata o anziana. Quella che segue è una nostra breve sintesi. L’intervento integrale è disponibile nel video qui a lato.

Il prof. Mario Melazzini parte da alcune brevi citazioni di Isaia, di S.Paolo, del messaggio dei Vescovi per la Giornata per la Vita 2007 (“Non si può non amare la vita: è il primo e il più prezioso bene per ogni essere umano”) e di Papa Benedetto XVI (“La persona umana non è, d’altra parte, soltanto ragione e intelligenza. Porta dentro di sé, nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta…” – Verona, 19.10.2006). Queste considerazioni, dice, lo aiutano quotidianamente nella difficoltà e nella malattia.

Noi medici, quando siamo davanti a un malato, spesso commettiamo l’errore di considerare solo la malattia e non la persona. Noi medici riceviamo amore e umanità dai nostri malati ma spesso non ce ne accorgiamo. Diversamente riusciremmo a ricostituire quella che nei manuali è chiamata alleanza terapeutica tra medico e paziente. Sono quattro anni da che ho incontrato questa malattia che oggi io considero come un dono, una nuova opportunità come uomo, come malato, come medico, come padre e marito. Mi ha messo in crisi come medico e mi ha permesso di apprezzare questa frase di Kierkegaard (1849):

“Se davvero si vuole aiutare qualcuno bisogna prima scoprire dove si trova. Questo è il segreto dell’assistenza. Se non si può scoprirlo è solo un’illusione credere di poter aiutare un altro essere umano”.

Fino a 4 anni fa io sciavo col mio terzo figlio. La mia malattia, descritta in parole semplici, porta alla morte dei motoneuroni, le cellule nervose che trasportano gli impulsi alla muscolatura volontaria. I medici dicono, giustamente, che la SLA è una malattia inguaribile con causa sconosciuta e che nell’85% dei casi la morte sopravviene in circa 3 anni.

Con questa malattia io ho imparato a fare bene il medico anche se sono 25 anni che pratico. Dopo 4 anni riesco ancora a parlare e, per fortuna, la malattia lascia totalmente integre le capacità cognitive (cosa importante per un medico…). Pur essendo io come prigioniero del mio corpo, dipendente totalmente dagli altri, ho potuto raggiungere maggiore coscienza dei valori della vita, conscio di quel che succederà… ma questo solo il buon Dio può dirlo.

Perché il malato chiede di morire? Confesso che all’inizio ebbi questa tentazione e contattai un clinica specializzata per il suicidio assistito. Me ne vergogno ma non mi vergogno a dirlo. Per fortuna qualcuno ha messo la sua mano su di me… il mio padre spirituale… la lettura del Libro di Giobbe… mi hanno fatto concludere che la vita è bella e val la pena di viverla.

Il malato chiede di morire – questa è la mia esperienza – a causa della perdita di significato della vita, per disperazione esistenziale, per la convinzione di aver perso la propria dignità. Molto però dipende dall’atteggiamento del medico che a sua volta sperimenta la frustrazione dell’impotenza a guarire. Io ho capito che molto tempo va dedicato alla comunicazione col malato, che le informazioni vanno personalizzate a seconda della persona che si ha dinnanzi. Bisogna evitare di parlare in “medichese” e occorre ricordarsi che la malattia coinvolge l’intera famiglia.

A volte il medico sfoga la sua impotenza con atteggiamenti di rifiuto e di aggressività, di vera e propria paura a gestire il caso per approdare infine a forme di accanimento tese ad anticipare la fine. Invece dobbiamo capire che tutte le malattie sono almeno trattabili, se ricostruiamo la alleanza terapeutica medico-paziente. La dignità del paziente dipende tantissimo dall’occhio del medico, da come noi medici guardiamo il malato.

Se il caso Welby ha avuto un pregio è quello di aver evidenziato lo stato di abbandono in cui vivono tanti malati. Purtroppo alcuni – che dovrebbero occuparsi dei pazienti – arrivano all’assurdo di definire come accanimento terapeutico “ogni trattamento praticato senza alcuna ragionevole possibilità di un vitale recupero organico-funzionale” (Ignazio Marino, presidente commissione Sanità al Senato, su La Repubblica 08.02.2007). Ma questo è assolutamente errato: in tutte le malattie croniche non si ha alcun recupero organico-funzionale eppure vengono curate. Ad esempio la mia malattia mi impedisce di alimentarmi regolarmente: utilizzo un tubicino che entra nello stomaco… Io non recupero la funzionalità della deglutizione. Analogamente io non riesco a respirare da solo durante la notte (a volte anche durante il giorno…) e quindi ho una macchina che mi aiuta a respirare. Secondo la definizione appena citata su di me si opera un accanimento terapeutico. A me sembra che sia esattamente l’opposto: mi viene fornito un sostegno vitale, un supporto a svolgere funzioni fisiologiche e naturali come mangiare e respirare.

Tra i fenomeni a mio modo di vedere più squallidi c’è il fatto che durante il fine-settimana, negli ospedali dei paesi dove il suicidio assistito è legale, si presentano degli agenti delle cliniche della cosiddetta “dolce morte” a proporre i loro servizi ai pazienti più gravi e più soli.

Io, come medico e come malato mi son fatto promotore, assieme ad altri miei colleghi, di gridare la voglia di vivere e soprattutto il coraggio di vivere, di far vivere e di far rispettare il diritto dei malati al sostegno e alla vicinanza.